Presidente Terracini. Pongo ai voti nel suo complesso l’articolo 7, che diventerà articolo 3 della Costituzione:
«I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di religione e di opinioni politiche, hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge.
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia».
(È approvato — Vivi applausi).
Dal verbale dell’Assemblea Costituente del 24 marzo 1947.
A buon diritto
Settant’anni fa, proprio nel mese di marzo, l’Assemblea costituente discuteva e approvava il testo dell’articolo 3(1) di quella Costituzione della Repubblica Italiana che sarebbe poi entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Un articolo importantissimo per le donne italiane, che solo da un anno avevano ottenuto il diritto di voto e ancora erano alle prese con un paese profondamente patriarcale: grazie a quell’articolo, infatti, l’uguaglianza dei generi entrava a buon diritto tra i principi fondanti della neonata Repubblica.
Ricordarlo oggi, 8 marzo, Giornata internazionale della donna(2) , ha un particolare significato. Le statistiche pubblicate nel Rapporto annuale del Word Economic Forum (WEF) sulla situazione nel 2016 del gender gap nel mondo (o meglio, nei 142 Stati esaminati), mostrano come il nostro Paese si collochi solo al 50esimo posto della classifica generale, con – peraltro – un peggioramento di nove posizioni rispetto allo scorso anno. Particolarmente allarmanti sono la collocazione alla 117esima posizione nella classifica parziale relativa alla partecipazione economica e alle opportunità, e quella al 56esimo posto nella parità nel campo dell’istruzione. Tutto ciò conferma come, nonostante gli indubbi passi avanti compiuti, l’Italia sia ancora lontana dalla piena realizzazione del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione.
Le conquiste in questi settant’anni sono state comunque tante ed è innegabile che la condizione femminile nel nostro Paese, dal quel marzo 1947, sia costantemente e progressivamente migliorata. In assenza, finora, di studi e valutazioni scientifiche sull’impatto delle politiche di genere, il Senato ha voluto ripercorrere, con questo dossier, le principali tappe legislative della lunga marcia delle donne verso l’uguaglianza: in termini di garanzie lavorative, sia come tutela delle madri lavoratrici sia come opportunità di accesso al mondo del lavoro; sotto il profilo sociale e della tutela giuridica della donna; e, infine, in relazione alle pari possibilità di accesso alla vita politica ed economica del Paese.
PARTE PRIMA. Madri al lavoro
La prima legge della neonata Repubblica in favore delle donne risale al 1950, poco dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale: su impulso delle donne parlamentari – di cui alcune avevano già fatto parte dell’Assemblea costituente – l’attenzione del legislatore si è rivolta alla tutela del lavoro femminile e, in particolare, alla necessità di assicurare alle donne, in quanto madri, una protezione adeguata e speciale.
Con la legge 26 agosto 1950, n. 860 “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” vengono introdotte importanti misure- ancora oggi in larga parte valide- a tutela della maternità delle donne lavoratrici. Tra queste: il divieto di licenziamento dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino; il divieto di adibire le donne incinte al trasporto e al sollevamento di pesi ed altri lavori pericolosi, faticosi o insalubri; il divieto di adibire al lavoro le donne nei tre mesi precedenti il parto e nelle otto settimane successive salvo possibili estensioni. Si trattava di una svolta epocale, come rilevava la deputata democristiana Vittoria Titomanlio “semplicemente segna un passo in avanti nelle conquiste sociali dal punto di vista della nobiltà della maternità da una parte e del lavoro tra l’altro dall’altra“. Meno trionfante, l’onorevole Teresa Noce Longo (PCI). Come rilevava tristemente, nella medesima occasione, la legge “tutela però ancora sempre e soltanto un quinto circa delle madri lavoratrici italiane, restando tuttora escluse numerose altre,( ….) soprattutto sono state escluse le casalinghe, le mogli dei lavoratori“(3) .
In effetti non solo le casalinghe, ma anche le donne lavoratrici agricole restavano fuori dall’ambito di applicazione della legge, che aveva un ulteriore grave limite: non assicurava una piena protezione contro le cosiddette “clausole di nubilato” che, se inserite nei contratti di lavoro, potevano portare le donne, non appena si sposavano, a perdere la propria occupazione.
Ci sarebbero però voluti altri 13 anni perché il Parlamento approvasse, in sede deliberante – con un dibattito di fatto monopolizzato da tre deputate: le onorevoli Angelina Merlin (PSI), Giuseppina Re (PCI) e Maria Lisa Cinciari Rodano (PCI) – la 7@originale” style=”background: no-repeat transparent; text-decoration: none; color: rgb(125, 0, 125);”>legge 9 gennaio 1963, n. 7 , che, oltre a vietare qualsiasi genere di licenziamento in conseguenza del matrimonio, prevedeva alcune misure a sostegno della maternità delle lavoratrici agricole.
Il valore sociale delle casalinghe
Con la legge 5 marzo 1963, n. 389, il Parlamento italiano compiva un altro passo importante: l’istituzione presso l’INPS della gestione separata “mutualità pensioni” per l’assicurazione volontaria delle pensioni delle casalinghe. Era una tappa fondamentale verso il riconoscimento della dignità del lavoro domestico e del ruolo della donna di casa, la quale – come osserva la sen. Giuseppina Palumbo (PSI), “è il perno della famiglia; ad essa è assegnata una missione insostituibile e irrinunciabile“(4) .Per un pieno riconoscimento del valore sociale del lavoro domestico svolto per la cura del nucleo familiare si dovrà però attendere la legge 8 dicembre 1999, n. 493, con cui veniva istituita l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni domestici. Dal marzo 2001 è così obbligatoria l’iscrizione presso l’INAIL di tutti coloro, uomini o donne, che hanno un’età compresa tra i 18 e i 65 anni e svolgono, in modo abituale ed esclusivo e senza vincoli di subordinazione, il lavoro domestico per la cura dei componenti della famiglia e dell’ambiente in cui dimora il nucleo familiare.
Mamme agricole, artigiane e commercianti
Un’ulteriore estensione della tutela delle lavoratrici madri è stata prevista dalla legge 30 dicembre 1971, n. 1204. Per la relatrice, l’onorevole Tina Anselmi (DC), rappresentava “il tentativo più organico per tutelare la lavoratrice madre che il parlamento italiano si sia mai apprestato a fare. In tal modo noi diamo una risposta adeguata a quanto prescritto dall’articolo 37 della costituzione. (…) Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre al bambino una speciale adeguata protezione“(5) . La nuova legge, infatti, oltre ad assicurare un’efficace protezione per le gestanti – divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino – introduceva l’astensione facoltativa dal lavoro per sei mesi, oltre ai tre mesi obbligatori dopo il parto. Inoltre rafforzava le misure a tutela delle lavoratrici agricole (alle quali non veniva più corrisposto un assegno una tantum ma l’80 per cento della retribuzione) e alle lavoratrici autonome, come le coltivatrici dirette, le artigiane e le commercianti (alle quali era riconosciuta un’indennità di 50 mila lire).
Nel solco tracciato dalla legge del 1971 si inseriva poi la legge 29 dicembre 1987, n. 546, approvata in sede deliberante in ambedue i rami del Parlamento: riconosceva la corresponsione alle lavoratrici autonome coltivatrici dirette, mezzadre e colone, artigiane ed esercenti attività commerciali, di una indennità giornaliera di maternità per i due mesi precedenti e i tre successivi al parto.
Infine ecco la legge 27 dicembre 1997, n. 449. Tra le “Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”, all’articolo 59, comma 16, troviamo alcune misure contributive a tutela della maternità delle lavoratrici parasubordinate.
Un nuovo obiettivo: conciliare vita e lavoro
L’inizio del nuovo millennio mostra un cambiamento della società italiana e della concezione della famiglia, in cui la donna riveste un ruolo sempre più attivo e paritario in termini di autonomia lavorativa ed economico-finanziaria. Inevitabile, perciò, anche un mutamento della percezione del rapporto genitoriale: la necessità di conciliare l’attività lavorativa con le responsabilità derivanti dall’educazione e dall’accudimento dei figli non costituisce più una esclusiva questione femminile, ma un dovere/diritto da garantire anche ai padri.
In questo contesto si inserivano prima la legge 23 dicembre 1998, n. 448(Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), che agli articoli 65 e 66 introduceva l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli e l’ assegno di maternità, e poi la legge 8 marzo 2000, n. 53, recante disposizioni per il sostegno della maternità e paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città. Quest’ultima legge promuoveva, infatti, un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, mediante, fra le altre, l’istituzione dei congedi dei genitori e l’estensione del sostegno ai genitori di soggetti portatori di handicap.
Baby sitter, part-time & co.
Sulla stessa linea dei provvedimenti precedenti troviamo le nuove misure previste dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”. Nell’ambito delle politiche dirette alla conciliazione vita-lavoro, in via sperimentale, viene infatti introdotto il cosiddetto voucher babysitting: una misura (prorogata per il 2016 dall’articolo 1, comma 282, della legge 208/2015 – stabilità 2016) che riconosce alla madre lavoratrice dipendente, pubblica o privata, nonché alle madre lavoratrice iscritta alla gestione separata, la possibilità di richiedere (al termine del periodo di congedo di maternità e negli undici mesi successivi), al posto del congedo parentale, un contributo economico da impiegare per il servizio di baby-sitting o per i servizi per l’infanzia erogati da soggetti pubblici o da soggetti privati accreditati(6) .
Ulteriori misure a sostegno della maternità/paternità sono contemplate anche dalla recente legge delega di riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act (legge 10 dicembre 2014n.183), e dai relativi decreti attuativi. In particolare, il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 prevede l’ampliamento dell’applicazione delcongedo di maternità in caso di parto anticipato e di ricovero del neonato; il riconoscimento del congedo di paternità anche se la madre è una lavoratrice autonoma e l’estensione del congedo parentale fino al dodicesimo anno di vita del bambino con una fruizione anche su base oraria.
Con il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 invece, è stata riconosciuta al lavoratore la possibilità, per una sola volta, di chiedere – al posto del congedo parentale – la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché la riduzione d’orario non superi il 50 per cento.
Alla fine di questo lungo iter si colloca il decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (e successive modificazioni): è il Testo Unico che raccoglie (e aggiorna) mezzo secolo di disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità. Si tratta di un provvedimento di riordino e di sistematizzazione di tutta la materia, e quindi delle norme vigenti sulla salute della lavoratrice, sui congedi di maternità, paternità e parentali, sui riposi e permessi, sull’assistenza ai figli malati, sul lavoro stagionale e temporaneo, a domicilio e domestico, nonché delle norme di cui usufruiscono le lavoratrici autonome e le libere professioniste.
PARTE SECONDA. Dal divieto di accesso al divieto di discriminare.
L’ultimo Rapporto annuale (2016) dell’Istat è impietoso: a fronte di un tasso di occupazione maschile (15-64 anni) del 65,5%, l’occupazione femminile (in relazione ad analoga fascia d’età) in Italia è ferma al 47,2%. Quasi 20 punti percentuali di differenza tra donne e uomini testimoniano che siamo ancora ben lontani da una piena uguaglianza di opportunità.
L’analisi legislativa registra indubbi sforzi, in questi settant’anni, per assicurare una piena parità tra lavoratori e lavoratrici, sia in termini di accesso che di trattamento; ma i ritardi sono altrettanto indubbi. Per esempio, è solo nel 1956 che il Parlamento ha cominciato ad abrogare i limiti di accesso per le donne a determinate carriere. Nonostante i principi sanciti nella Carta Costituzionale, ancora per lunghi anni alcune professioni – dalla magistratura alle forze di polizia e militari – sarebbero state ritenute una prerogativa unicamente maschile.
E’ infatti solo con la legge 27 dicembre 1956, n. 1441 che anche alle donne è stato consentito accedere alla magistratura, sia pure limitatamente alle funzioni di giudici popolari (ordinari o supplenti) e di componenti dei Tribunali dei minorenni. La lettura delle cronache parlamentari dell’epoca spiega le ragioni di un simile impedimento: si va da motivazioni di tutela paternalistica del gentil sesso, la cui “sensibilità” lo renderebbe inadatto a “sentire il racconto delle cose più truci e tristi che si possano immaginare”(7) , a motivi di inidoneità genetica, per i quali le donne sarebbero dotate di un cranio di dimensioni inferiori a quelle maschili e quindi meno intelligenti(8) .
Per avere il pieno diritto ad accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie senza limitazioni di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge, le italiane dovranno attendere la legge 9 febbraio 1963, n. 66.
Donne in armi
Anche tra le forze dell’ordine l’inserimento delle donne è stato un processo lento e graduale. La legge 7 dicembre 1959, n. 1083ha consentito l’accesso in Polizia, ma nel solo “Corpo femminile” e con funzioni ben circoscritte, come la prevenzione e l’accertamento dei reati contro la moralità pubblica e il buon costume, la famiglia, la tutela del lavoro delle donne e dei minori. Ossia ambiti in cui il legislatore di allora – citiamo per esempio l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro (DC), futuro presidente della Repubblica e allora sottosegretario di Stato per l’Interno – riteneva che “l’apporto materno della donna” potesse risultare particolarmente utile “al fine di ottenere i maggiori risultati per l’affermazione dei valori più duraturi dell’umana“(9) . E’ stato necessario attendere oltre un ventennio affinché alle donne poliziotto fosse riconosciuta pari dignità rispetto ai colleghi uomini. Con la legge 1 aprile 1981, n. 121 è stato infatti sciolto il Corpo di polizia femminile, consentendo l’ingresso delle donne nei ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza con parità di attribuzioni, di funzioni, di trattamento economico e di progressione di carriera.
L’ultimo baluardo al riconoscimento di una piena parità di accesso alle varie carriere professionali è rimasto, per quasi altri 20 anni, il divieto per le donne di svolgere il servizio militare. Per compiere questo passo avanti si è dovuto attendere la legge 20 ottobre 1999, n. 380, che ha dato la delega al Governo a disciplinare il reclutamento, lo stato giuridico e l’avanzamento del personale militare femminile nelle Forze armate e nella Guardia di Finanza. Di lì a pochi mesi arrivavano i decreti legislativi e i decreti attuativi(10) . Eravamo ormai entrati nel nuovo millennio.
Il ghetto rosa
Le donne, oltre a combattere contro gli ostacoli giuridici che impedivano il libero accesso a determinate professioni, hanno dovuto anche lottare contro la “ghettizzazione” che le destinava ad attività lavorative, come l’insegnamento scolastico, considerate per anni una squisita prerogativa femminile. Basta citare la legge 18 marzo 1968, n. 444che, nel delineare il nuovo ordinamento della scuola materna statale, riservava alle sole donne(11) la possibilità di rivestire incarichi di insegnanti e assistenti della scuola dell’infanzia_ con argomentazioni alquanto discutibili: si andava dal riconoscimento della funzione “materna” dell’asilo, ovvero“sostitutiva della madre intesa come quello dei due genitori eminentemente votato ad «assistere» il bambino“(12) , a motivazioni meno nobili in base a cui l’insegnamento ai più piccoli sarebbe una mansione modesta, meno pedagogica e intellettiva, e pertanto riservabile alle sole donne (13) .
Vietato discriminare
E la parità di trattamento? E la rimozione di ogni forma di discriminazione basata sul sesso? Per vedere le prime leggi in materia, le donne italiane hanno dovuto aspettare trent’anni dopo l’approvazione di quella norma costituzionale che definiva «compito della Repubblica» il «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia».
Il primo intervento legislativo degno di nota è infatti rappresentato dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, frutto dell’iniziativa del ministro del Lavoro Tina Anselmi (DC): sanciva il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, nella formazione professionale, nelle retribuzioni e nell’attribuzione di qualifiche professionali. Vale la pena di ricordare brevemente il bellissimo dibattito parlamentare che vedeva protagonista alla Camera Maria Luigia Buro (DC)(14) «La lotta femminile per il rifiuto delle discriminazioni in base al sesso, della concezione della donna come una specie di sottoprodotto della cultura e della storia destinato ad essere marginale ed emarginato nella società, come strumento di piacere ed oggetto di consumo, significa che la donna vuole essere accolta come persona per quello che è e non solamente per quello che fa » – mentre al Senato spiccava Giovanna Lucchi (PCI)(15) : “Battersi per la parità tra l’uomo e la donna » significa interrogarsi «sulle effettive possibilità che la donna ha di realizzarsi come persona e come essere sociale; (…) se ha le stesse occasioni di partecipazione dell’uomo; se non sopporti il peso di una organizzazione sociale che agisce nei suoi confronti con estrema ambiguità e che, mentre da un lato esalta il ruolo di madre, dall’altro proprio questa condizione trasforma in un fattore dì emarginazione nella vita sociale e sul mercato del lavoro “.
La piena parità – lungi dall’essere raggiunta nei fatti – doveva essere ancora ribadita, quasi trent’anni dopo, dal decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, che,in attuazione della direttiva 2000/78/CE, riproponeva il divieto di ogni discriminazione in base al sesso; e questo non solo al momento dell’assunzione ma per tutta la durata del contratto di lavoro, sia nel settore pubblico sia in quello privato.
Per facilitare l’inserimento delle donne nel pubblico impiego – e in particolare delle donne che, impegnate in incombenze familiari, non si erano potute dedicare ad attività lavorativa in età giovanile – la legge 27 gennaio 1989, n. 25 ha infine elevato a quarant’anni l’età richiesta come requisito di partecipazione ai concorsi pubblici.
Azioni positive
E’ solo con gli anni Novanta – e con lo stimolo proveniente dalle iniziative a livello internazionale ed europeo a sostegno della parità di genere – che il legislatore italiano ha messo mano ad interventi di politica attiva per garantire che l’uguaglianza lavorativa tra uomini e donne non restasse una lodevole intenzione.
La legge 10 aprile 1991, n. 125 introduceva nell’ordinamento azioni positive volte ad eliminare le disparità di fatto che sfavoriscono l’accesso delle donne al mondo del lavoro; a promuovere l’inserimento delle donne nei settori professionali in cui sono sottorappresentate; a favorire l’equilibrio tra responsabilità familiare e professionale. Ulteriori positive actions a sostegno dell’imprenditoria femminile arrivavano l’anno successivo, con la legge 25 febbraio 1992, n. 215 che prevedeva agevolazioni e finanziamenti (anche a fondo perduto) per le imprese “in rosa”, sia da avviare che già esistenti. Si trattava di un intervento per lo sviluppo della imprenditoria femminile che secondo la relatrice, Anna Gabriella Ceccatelli (DC), rappresentava ”uno dei punti qualificanti del Terzo programma di azione a medio termine, per la realizzazione della parità uomo-donna negli anni 1991-1995, nell’ambito comunitario”(16) .
Quote rosa
Vent’anni più tardi, in Italia, la presenza femminile negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati era ancora così scarsa che la legge 12 luglio 2011, n. 120 ha dovuto intervenire per imporre l’obbligo delle cosiddette “quote rosa” nei consigli di amministrazione.
Qualcosa di analogo aveva provato a farlo già la legge 14 febbraio 2003, n. 30, la cosiddetta “legge Biagi”, ma in una prospettiva di più ampio respiro: nel riordino dei contratti di formazione e di tirocinio Biagi aveva infatti previsto – oltre al divieto di effettuare qualsivoglia indagine (o trattamento di dati, oppure preselezione) sui lavoratori, sia pure con il loro consenso, in base al sesso, allo stato matrimoniale, o di famiglia, o di gravidanza – anche di “superare il differenziale occupazionale tra uomini e donne”. In pratica, di facilitare l’inserimento o il reinserimento di quelle che erano uscite dal mercato del lavoro per far fronte ai compiti familiari.
Dimissioni in bianco? No, grazie.
Triste abitudine delle aziende, quella delle cosiddette “dimissioni in bianco”, cioè le dimissioni senza data che i lavoratori (e soprattutto le lavoratrici) erano costretti un tempo a firmare al momento dell’assunzione. Contro questa pratica possiamo citare due importanti provvedimenti: la legge 17 ottobre 2007, n. 188 (disposizioni in materia di modalità per la risoluzione del contratto di lavoro per dimissioni volontarie della lavoratrice, del lavoratore, nonché del prestatore d’opera e della prestatrice d’opera)_ e il decreto legislativo 14 settembre 2015n.151 (disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità).
Quest’ultimo provvedimento – adottato in attuazione del Jobs act – ha modificato in particolare la disciplina delle dimissioni volontarie e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro: per essere valide, le dimissioni devono oggi essere redatte in modalità telematica e solo su appositi moduli, resi disponibili dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali. E’ finita l’epoca dei fogli in bianco e senza data.
PARTE TERZA. Il corpo, il sesso, la violenza, la famiglia.
Sono molte le leggi che, dal 1947 a oggi, anni hanno contribuito a modificare il ruolo femminile in famiglia e nella società, superando quei retaggi storici che relegavano l’”altra metà del cielo” in una posizione subalterna rispetto all’uomo. Molti di questi provvedimenti sono stati il frutto delle battaglie che negli anni Settanta e Ottanta hanno visto l’impegno di migliaia di donne riunite in collettivi, movimenti e associazioni.
Un’antesignana di queste battaglie, e anche la prima a battersi contro lo sfruttamento sessuale delle donne, è stata negli anni Cinquanta la senatrice socialista Angelina Merlin, detta Lina, tenacissima autrice di quella Legge 20 febbraio 1958, n. 75che ha sancito la chiusura di 560 case di tolleranza – le cosiddette “case chiuse” – e la liberazione di 2700 professioniste che fino ad allora si erano prostituite sotto il controllo dello Stato. L’iter della legge è stato molto lungo (la prima proposta risale all’agosto del 1948) e contrastato, creando una spaccatura trasversale non solo in Parlamento ma anche nell’opinione pubblica italiana.
Molti abolizionisti, più che sulla difesa della autodeterminazione sessuale della donna, puntavano su motivazioni morali e sociali, igieniche e sanitarie. Nella relazione del senatore Antonio Boggiano Pico (DC), oltre alla necessità di superare le forme di discriminazione delle quali era vittima la prostituta – “diventa oggetto di discredito, «donna di mala vita», e questo la separa dalle altre donne e la rinchiude in qualche modo nella sua vergogna” – troviamo infatti sempre una netta condanna morale: “La donna che si è lasciata tentare dall’attrattiva del guadagno trova nella prostituzione il mezzo di guadagnare senza difficoltà più di quello a cui non riuscirebbe con un lavoro onesto ma penoso. (…) La prostituta viene a fare così un commercio del proprio corpo, e, vittima dell’uomo, lo trascina a sua volta con tutti i mezzi di seduzione, l’esorta al libertinaggio per procurarsi del denaro“(17) .
La procreazione responsabile
Dovevano passare ancora molti anni perché fossero approvate dal Parlamento nuove leggi ritenute parimenti divisive, anche se molto richieste dal movimento delle donne. Fino al 1971, quando è stato abrogato dalla Corte Costituzionale, è per esempio rimasto in vigore l’articolo 553 del Codice Penale che vietava la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, punibile con la reclusione fino a un anno. E solo nel 1975 la Legge 29 luglio 1975, n. 405 , istituendo i consultori familiari, attribuiva a queste nuove strutture l’assistenza in materia di procreazione responsabile(18) e la divulgazione di «informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi ed i farmaci adatti». Paradossalmente, tuttavia, solo nel 1976 il ministero della Sanità avrebbe autorizzato la vendita degli anticoncezionali nelle farmacie.
Due anni dopo, la Riforma sanitaria prevista con la Legge 23 dicembre 1978, n. 833 confermava tra le competenze del servizio sanitario nazionale, oltre alla tutela della maternità e dell’infanzia, anche il perseguimento di «scelte responsabili e consapevoli di procreazione».
Un’altra battaglia storica, dentro e fuori dal Parlamento, è stata infine la legge 22 maggio 1978, n. 194“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. In Parlamento il dibattito è stato non solo molto ampio ma anche molto aspro: non sono mancati interventi che hanno dipinte le donne come schiaviste, sperperatrici e assassine, assimilabili ai peggiori terroristi(19) . Sottoposta a referendum il 17 maggio 1981, la legge che legalizzava l’aborto è stata confermata dai cittadini con un’ampia maggioranza: 68 per cento di no all’abrogazione.
Addio al delitto d’onore e al matrimonio riparatore
Un effetto rivoluzionario sulla cultura e sul costume maschilisti che ancora resistevano in alcune aree meridionali del Paese lo dobbiamo alla legge 5 agosto 1981, n. 442. Un provvedimento attesissimo dalle donne, perché abrogava l’istituto del matrimonio riparatore (il reato di stupro si considerava estinto se l’autore del reato sposava la sua vittima) e il cosiddetto delitto d’onore (che prevedeva una sensibile riduzione della pena per chi uccideva coniuge, figlia o sorella in uno stato d’ira, al fine di difendere l’onore suo o della famiglia, leso a causa di una illegittima relazione carnale della donna). La legge finalmente affrontava, secondo la relatrice Maria Pia Garavaglia, un problema molto dibattuto: “quello di eliminare un vero e proprio privilegio – contemporaneamente alla necessità di ribadire e tutelare i diritti della persona e della vita – il cui godimento è consentito dal sistema per il suo protagonista principale, cioè l’uomo(20) . Non sono però mancati, in Aula, interventi molto critici nei confronti della totale abolizione del matrimonio riparatore.(21)
Stupro. Da delitto contro la morale a delitto contro la persona
Non diversa è la ratio che ha portato a un altro rivoluzionario provvedimento attesissimo dalle donne, la legge 15 febbraio 1996, n. 66.A oltre sessant’anni dall’entrata in vigore del Codice Rocco, veniva infatti modificata la disciplina penale dei reati sessuali e, soprattutto, la loro anacronistica collocazione tra i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume. Lo stupro veniva unificato agli atti di libidine in una nuova fattispecie di reato, la violenza sessuale, che veniva annoverato adesso fra i delitti contro la libertà personale_. Idem i nuovi reati sessuali compiuti ai danni di minori.(22)
Il catalogo dei reati sessuali si è poi arricchito negli anni di nuove fattispecie, anche su influsso degli stimoli internazionali: si pensi al delitto di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile all’estero, introdotto dalla legge 3 agosto 1998, n. 269, ai nuovi reati di tratta di persone e di riduzione in schiavitù ( di cui alla legge 11 agosto 2003, n. 228) e al reato di mutilazione degli organi genitali femminili (legge 9 gennaio 2006, n. 7).
Un nuovo diritto per la famiglia
Con gli anni Settanta anche il legislatore ha dovuto prendere atto del cambiamento della società italiana, dove ormai le donne erano sempre più proiettate al di fuori del focolare domestico e sempre più autonome ed indipendenti finanziariamente. E’ in questo contesto che si inseriscono due leggi fondamentali: la legge 1° dicembre 1970, n. 898, con cui veniva introdotto nella legislazione italiana il divorzio(23) ,e la legge 19 maggio 1975, n. 151che riformava il diritto di famiglia e sanciva la parità anche tra i coniugi, sostituendo la patria potestà con la potestà parentale.
Per certi aspetti in linea con una nuova e diversa percezione della società si colloca, recentissimamente, anche la legge 20 maggio 2016, n. 76,con la quale sono state regolamentate, da un lato, le unioni civili tra persone dello stesso sesso; e dall’altro le convivenze di fatto, sia omosessuali che eterosessuali.
Violenza domestica e stalking
Anche sul fronte della tutela della incolumità fisica e psicologica delle donne e contro ogni forma di aggressione o violenza (più o meno grave) perpetrata ai loro danni abbiamo avuto, a partire dal 2001, numerosi interventi legislativi. La legge 5 aprile 2001, n. 154 è stata la prima: ha introdotto una serie di misure di protezione (sia penali che civili) per contrastare il maltrattamento più diffuso, quello in ambito domestico.
Il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11(conv. L. 38/2009) ha poi introdotto nel codice penale il reato di atti persecutori (cosiddetto stalking, art. 612-bis). La fattispecie punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta una persona in modo da cagionarle un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o da costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.
Contro il femminicidio
Ulteriori misure per la prevenzione e il contrasto della violenza nei confronti delle donne sono state poi previste dal decreto-legge 14 agosto 2013 n. 93 (il cosiddetto “decreto anti-femminicidio”). In attuazione della Convenzione di Istanbuldel 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (già ratificata peraltro con la legge 27 giugno 2013, n. 77), il decreto anti-femminicidio introduceva un’aggravante comune (art. 61, n. 11-quinquies) per i delitti contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché per i maltrattamenti in famiglia. L’aggravante è ora da applicare se i fatti sono commessi in danno o in presenza di minori.
Il decreto è intervenuto sui reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e stalking assicurando assoluta priorità nella formazione dei ruoli d’udienza, così da poter arrivare ai processi in tempi rapidi. Inoltre, ha riconosciuto alle vittime straniere di violenza domestica la possibilità di ottenere uno specifico permesso di soggiorno(24) .
PARTE QUARTA. Pari opportunità anche in politica
A oltre settanta anni dal riconoscimento del diritto di voto alle donne, la presenza femminile nelle istituzioni rappresentative (e in particolare nei ruoli di vertice) e nei luoghi della decisione politica costituisce ancora un aspetto problematico della democrazia italiana. E’ innegabile però che gli interventi legislativi dell’ultimo ventennio hanno contributo ad un oggettivo miglioramento della situazione: lo dimostra la 25esima posizione riconosciuta al nostro Paese nella classifica parziale del Global gender gap Report 2016 relativa alle possibilità di carriera politica.
E’ stato a partire dagli inizi degli anni Novanta che si è diffusa una maggiore consapevolezza di questo deficit democratico e della necessità di porvi rimedio. In questo contesto si inserisce la legge 25 marzo 1993, n. 81che – disciplinando l’elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale – prevedeva una riserva di quote per l’uno e per l’altro sesso nelle liste dei candidati(25) alle amministrative. Un ulteriore impulso è arrivato dalla legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, che ha modificato l’art. 51 della Costituzione in materia di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive sancendo espressamente la promozione, con appositi provvedimenti, delle pari opportunità tra donne e uomini. Ma è stato solo con il nuovo millennio che il legislatore si è impegnato per garantire una maggiore presenza femminile a tutti i livelli.
Quote e preferenze di lista. Piccolo vademecum
- la legge 8 aprile 2004, n. 90, nel disciplinare le elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre elezioni previste nell’anno 2004, prescriveva che le liste circoscrizionali dovevano essere formate in modo che nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati;
- la legge 7 aprile 2014, n. 56, con riguardo all’elezione dei consigli metropolitani (organi delle nuove città metropolitane) e dei consigli provinciali (diventati organi elettivi di secondo grado), stabiliva che nessuno dei due sessi poteva essere rappresentato in misura superiore al 60 per cento, a pena di inammissibilità(26) _ della lista;
- la legge 22 aprile 2014, n. 65 ha introdotto, limitatamente alle elezioni europee del 2014,latripla preferenza di genere (nel caso in cui l’elettore decida di esprimere tre preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso). Ha inoltre previsto, e come disciplina a regime, anche la composizione 50-50 delle liste dei candidati, con l’obbligo di avere i primi due candidati di sesso diverso;
- infine la legge 15 febbraio 2016, n. 20ha previsto, tra i principi fondamentali in base a cui le Regioni a statuto ordinario sono tenute a disciplinare il sistema elettorale regionale, l’adozione di misure specifiche per promuovere le pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive(27) .
Contro il maschilismo dei partiti
Ma se le donne non hanno accesso alla carriera politica, o lo hanno ancora oggi in maniera ridottissima, come è possibile garantire loro pari opportunità di ingresso in Parlamento e alle altre cariche elettive? Contro questo monopolio prettamente maschilista della politica, la legge 3 giugno 1999, n. 157ha previsto l’obbligo, per ogni partito o movimento finanziato dallo Stato, di destinare almeno il 5 per cento dei rimborsi elettorali a “iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica”. Quando poi il finanziamento pubblico diretto è stato abolito, il decreto -legge 28 dicembre 2013, n. 149 (conv. dalla L. n. 13/2014) ha disposto che i partiti, per statuto, devono avviare azioni positive per arrivare alla parità tra i sessi negli organismi collegiali e nelle liste elettorali.
CONCLUSIONI. Lavori in corso
Il lungo excursus normativo mostra come, in oltre settanta anni di vita repubblicana, la condizione femminile sia decisamente migliorata, ma è innegabile che l’Italia sia ancora lontana dal raggiungimento di una piena parità fra i sessi e, soprattutto, dalla piena attuazione della sua Carta costituzionale. Le battaglie delle donne non sono perciò ancora finite. Anche in Parlamento. Tra le iniziative legislative attualmente all’esame segnaliamo i disegni di legge AS 1628e connessi in materia di cognome dei figli. In linea con la più recente giurisprudenza europea e costituzionale, e dando seguito a una storica battaglia delle donne italiane, questi provvedimenti intervengono sulla disciplina civilistica relativa al cognome ai figli e permettono l’attribuzione anche del cognome materno. Il via libera a questa legge sancirebbe la piena equiparazione fra i genitori, a prescindere dal sesso.
Altrettanto rilevanti, questa volta sotto il profilo della tutela penale, sono i disegni di legge AS 638e connessi, che per la prima volta portano all’attenzione del legislatore il dramma mondiale delle spose bambine. Attraverso modifiche al codice penale si punta a introdurre misure per il contrasto dei matrimoni precoci e forzati, un fenomeno che – soprattutto in conseguenza della connotazione sempre più multiculturale della società – riguarda l’Italia, e dunque tutte e tutti noi, sempre più da vicino.
A cura di Carmen Andreuccioli
1) Si veda Assemblea costituente, seduta pomeridiana 24 marzo 1947
2) E’ appena il caso di ricordare che si deve proprio a tre Madri costituenti, ovvero alla deputata comunista Teresa Mattei e alle colleghe di partito Rita Montagnana e Teresa Noce la scelta del simbolo della mimosa per la prima festa della donna celebrata, l’8 marzo 1946, nell’Italia ormai liberata.
3) Camera dei deputati, Assemblea, seduta 27 giugno 1950.
4) Si veda Senato della Repubblica, 10a Commissione, seduta 12 febbraio 1963 .
5) Camera dei deputati, XIII Commissione, seduta 10 novembre 1971.
6) L’articolo 1, comma 283, L. 208/2015 (Stabilità 2016) ha inoltre esteso, per il 2016, il voucher babysitting alle madri lavoratrici autonome o imprenditrici, nel limite di spesa di 2 milioni di euro, demandando ad un apposito decreto la definizione dei criteri di accesso e delle modalità di utilizzo del beneficio per le nuove categorie interessate (sul punto si veda il DM 1° settembre 2016)
7) Si veda l’intervento del sen. Antonio Monni in Senato della Repubblica, Assemblea, seduta 16 Novembre 1956, n. 468
8) Si veda il lungo intervento della sen. Angelina Merlin nel quale tali teorie “biologiche” sono ritenute prive di fondamento scientifico ( Senato della Repubblica, Assemblea, seduta 15 Novembre 1956, n. 467 .)
9) Si veda l’intervento dell’on. Scalfaro (allora Sottosegretario di Stato per l’Interno) in Senato della Repubblica, 2ª Commissione, seduta 15 luglio 1959.
10) Il Decreto Legislativo 31 gennaio 2000, n. 24 “Disposizioni in materia di reclutamento su base volontaria, stato giuridico e avanzamento del personale militare femminile nelle Forze armate e nel Corpo della guardia di finanza, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 20 ottobre 1999, n. 380”, e il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 16 marzo 2000, n. 112 “Regolamento recante modifiche al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 22 luglio 1987, n. 411, relativo ai limiti di altezza per la partecipazione ai concorsi pubblici”.
11) Tale disposizione è stata peraltro dichiarata illegittima nella parte in cui “discriminava” gli uomini, dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 8 – 16 giugno 1983, n. 173.
12) Si veda l’intervento dell’on. Giorgina Levi Arian (PCI) in Camera dei deputati, Assemblea, seduta 22 febbraio 1968.
13) Si veda in proposito l’intervento dell’on. Bonea (PLI) in Camera dei deputati, Assemblea, seduta 8 marzo 1968, n. 843.
14) Si veda Camera dei deputati, Assemblea, seduta 29 giugno 1972.
15) Si veda Senato della Repubblica, Assemblea, seduta 13 ottobre 1972.
16) Si veda Senato della Repubblica, 10a Commissione, seduta 29 gennaio 1992.
17) Si veda Senato della Repubblica, 1ªCommissione, seduta 21 gennaio 1955.
18) Si veda per tutti l’intervento della sen. Falcucci in Senato della Repubblica, Assemblea, seduta 3 luglio 1975.
19) Si veda in particolare l’intervento del sen. Karl Mitterdorfer (SVP) in Senato della Repubblica, Assemblea, seduta 18 maggio 1978. La gravità del parallelismo è accentuata dal fatto che quelli erano proprio i giorni del rapimento Moro.
20) Si veda Camera dei deputati, IV Commissione seduta 2 luglio 1980.
21) Si veda in proposito l’intervento dell’ex magistrato Carlo Casini (DC): “Perché escludere, seppure in linea teorica, che un sia pur grave episodio di violenza sessuale possa essere seguito da un matrimonio dettato, autenticamente, da una libera scelta?“
22) Si tratta di due nuovi illeciti in danno di minori: § gli atti sessuali con minorenne (art. 609-quater) e § la corruzione di minorenne (art. 609-quinquies). La stessa legge ha previsto l’irrilevanza penale dell’ignoranza dell’età della persona offesa (art. 609-sexies) nonché la comunicazione obbligatoria da parte della Procura al tribunale dei minorenni dell’avvio di procedimenti per reati sessuali in danno di minori (art. 609-decies).
23) E’ appena il caso di notare che, soprattutto fra i contrari alla riforma, la legge sul divorzio viene dipinta come una iniziativa “a favore degli uomini” che rischia di lasciare le donne, soprattutto quelle meno giovani, prive di tutela e protezione (Camera dei deputati, Assemblea seduta 14 ottobre 1969, intervento dell’on Storchi).
24) Per un ulteriore approfondimento su violenza di genere e femminicidio si rinvia alla Nota Breve n. 153.
25) Tale previsione è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza 12 settembre 1995, n. 442 . E’ appena il caso di notare che le argomentazioni a sostegno della illegittimità delle quote rosa erano già emerse in sede di dibattito parlamentare. Si veda in proposito l’intervento dell’on. Ciaffi (DC) in Camera dei deputati, Assemblea, seduta 13 aprile 1993, n. 115.
26) Tale disposizione è destinata a trovare applicazione decorsi 5 anni dall’entrata in vigore della L. n. 215/2012, sulla rappresentanza di genere negli organi elettivi degli enti locali e quindi, di fatto, a partire dal 2018 (art. 1, commi 27-28 e commi 71-72).
27) L’art. 9 in particolare disciplina inoltre espressamente la parità di accesso alle cariche elettive, sancendo innanzitutto il principio in base al quale i partiti politici promuovono tale parità.